Reportage della prima settimana del laboratorio di danza '100 pas presque' (7-12 aprile 2018), con Taoufiq Izeddiou e Said Ait El Moumen.
Il reportage di Claudia Selmi
Nel primo gruppo siamo una trentina. Ci ospita il bellissimo Teatro San Martino, si attraversa un chiostro pieno di luce e spazio che attutisce ogni rumore e si sale al secondo piano. Il laboratorio comincia con le presentazioni, Taoufiq e Said, coreografi di origine berbera che hanno alle spalle un lavoro molto interessante di danza contemporanea esistenziale, un lavoro di indagine del proprio vissuto, della propria storia personale e collettiva, presente e passata. Hanno un'energia esplosiva, plastica, che dal pavimento dove s'intessono i movimenti dei piedi sale fino al cielo.
Taoufiq parla in francese e arabo, mentre Said traduce in italiano e inglese. La performance che prepariamo e che ha già avuto luogo in diverse città del mondo, prima tra tutte Marrakech, è '100 pas presque', una marcia di cento passi circa da percorrere in un'ora, durante il festival Right to the City il prossimo giugno, a Bologna. Questa è la prima parte del laboratorio, ce ne sarà una seconda a ridosso dello spettacolo. Lo spazio della performance sarà urbano, all'aperto, in due luoghi della città, da una linea di partenza comune seguendo una direzione rettilinea fino a raggiungere una band che suonerà musica tradizionale del Marocco.
La regola è che si deve avanzare tutti insieme, come individui forti in una comunità forte. Alcune domande di ricerca che ci pone Taoufiq sono, ad esempio: ‘Come si fa a non sparire nella massa, e ad essere individui di una comunità connessa? Come si fa a non cadere nella trappola di fare i cavalieri solitari? Come si fa una rivoluzione che abbia senso all'interno della comunità? Cosa vuol dire avere senso? La rivoluzione non si fa da soli.
Ognuno ha i suoi elementi, le sue materie, i suoi movimenti, per fare questa camminata. Si parte piano, si accumulano energia e tensione, si accelera, finché ci si dice che è il momento di andare, ma non a parole, si deve sentire l'energia, e si va, a quel punto si può rilasciare tutto, essere liberi, danzare insieme, e coinvolgere nel nostro movimento tutti quelli che vorranno, e che fino ad allora forse hanno solo guardato. E' importante, ci suggeriscono le nostre guide, essere radicati per terra, ma si danza anche nell'aria. Sono importanti le connessioni e le relazioni tra noi, che un movimento possa contagiare tutti quanti. Perché tenere tutta quest'energia per noi, perché non liberarci?
Pratichiamo alcuni esercizi per prendere confidenza con le proprie materie e con quelle degli altri. Provo dei “Passi” di danze passate che affiorano alla memoria del corpo... I coreografi passano individualmente per perfezionare i movimenti. Taoufiq sceglie il primo movimento che ho eseguito. Lo attraversa come pura energia, e me lo restituisce determinato, le braccia formano delle linee, mi dice che devo dare un'anima a questo movimento, non serve a riempire lo spazio. Devo interrogarlo, deve comunicare, deve narrare qualcosa.
Facciamo altri esercizi per sviluppare una vista a 360 gradi, per relazionarci al movimento degli altri. Per orientarci nel sorvegliare l'energia, il tempo e lo spazio del gruppo. Facciamo un'esperienza camminando a occhi chiusi nel centro della città, accompagnati da un compagno, per immergerci nella sensorialità di questo percorso, dello spazio urbano, percepire come un gruppo di persone che si muove in città modifica inevitabilmente il movimento degli altri. Al buio degli occhi, sono entrata in un terreno profondo, all'ascolto del movimento dei muscoli e delle articolazioni. E quando riapriamo gli occhi, dove eravamo convinti di trovarci?
Un'osservazione di Taoufiq, tra le tante che mi colpisce, dopo una prova dice che mettiamo troppa attenzione alla coreografia, ma la coreografia deve sparire per trasformarsi in connessioni ed energia. Da un laboratorio di movimento e ricerca possono anche emergere delle riflessioni su se stessi. Nel mio caso, questa marcia è significativa. Nell'andare avanti, calibro il peso in ogni passo, perché sia sicuro e piantato per terra, e a tratti, quanta pesantezza! L'aria è densa, a tratti impenetrabile, e devo combattere passo per passo per creare la mia strada. Quando dimentico che è una lotta, posso finalmente connettermi con gli altri, e questa è la forma di marcia migliore. La connessione. Non posso controllare tutto, non posso impedire che l'energia mi contagi e non posso isolarmi, per fortuna. Perché intestardirsi? A fare il cavaliere solitario non c'è gusto, ma mi rendo conto danzando che per connettersi è necessario trovare un po' d'apertura intorno, un intento comune...
Altri importanti spunti di riflessione nati dal lavoro con Said riguardano il potere dello sguardo, di sostenere lo sguardo, e della libertà e della necessità del movimento. “Se sentite la necessità di spaccare quel muro danzando, potete farlo! Se sentite la necessità incombente di rompere le regole per andare a danzare con un compagno dall'altra parte della linea, potete! Siete liberi, niente è determinato”, ci disse un giorno con il suo modo di fare, tra serietà e paradosso.
In attesa della seconda parte del laboratorio e la performance conclusiva, questa è stata un'esperienza preziosa di ascolto e confronto, per interrogarsi sulla comunità e lo spazio comune, sulle relazioni, sulla responsabilità delle connessioni, attraverso la danza. Una bella riflessione sulla questione: Come camminiamo nella nostra comunità ?
Foto di Konstancja Dunin-Wasowicz